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Confine Thailandia-Myanmar: momento di bilanci. |
Qualche giorno fa mi sono ritrovata senza preavviso e quasi
a mia insaputa (per rubare un’espressione cara alla politica) a varcare
il confine con il Myanmar, o Birmania che dir si voglia, per il mio prima visa
border, un’esperienza che chiunque si ferma un po’ di tempo in Thailandia prima
o poi sperimenta.
Come dice bene il proverbio, il primo rinnovo non si scorda
mai e il mio è stato occasione di inevitabili riflessioni, perché la
scampagnata fuori confine mi ha fatto improvvisamente realizzare che
sono passati già due mesi da quando sono
arrivata a Chiang Mai. 60 giorni da quando ho voltato pagina nella mia vita
professionale e personale. 1440 ore da quando ho smesso di essere una editor da
ufficio per diventare una
editor nomade.
Un tempo troppo breve, naturalmente, per delineare un quadro
preciso, ma sufficiente per tirare le prime somme.
La mia è stata, fino a
questo momento, un’interpretazione soft di nomade digitale. Una versione
light, una Tourtel in mezzo a un mondo di Birre del Deserto.
Non lavoro nei
caffè, non consulto la posta nei ristoranti, non aggiorno il blog nella sala
d’attesa di un aeroporto, non socialnetworkinteragisco sulla panchina di un
parco.
Sono una nomade digitale poco nomade e scarsamente digitale: il mio
portatile è troppo pesante per infilarlo a tracolla e approfittare della prima
postazione wifi gratuita che trovo (ovunque, qui a Chiang Mai), so poco o niente
di mbps download e upload e non ho esperienze precedenti in altri paesi da
comparare. Ciliegina sulla torta, non ho nemmeno mai messo piede in un co-working
space o bazzicato nella zona figa di Chiang Mai dove ogni nomade digitale che
si rispetti ha il proprio
quartier generale.
Diciamolo: il mio cv di nomade digitale è quanto di più
pietoso si sia visto da un bel po’ di tempo a questa parte. Se sapessero che il
mio ufficio preferito è una biblioteca francese semideserta e sconosciuta che
non serve nemmeno un mango shake, probabilmente mi bannerebbero anche dai
gruppi tematici.
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Camp, il co-working space di Maya, Chiang Mai. |
Eppure, sebbene io sia sempre io anche dall’altra parte del
mondo, e non ci siano state rivoluzioni copernicane (e quando mai ci sono?), sotto
sotto,
dentro questo piccolo corpicino
magro, batte un cuore da nomade digitale. Eccome se batte.
Avevo partita iva già da due anni, ma questo non sempre
significa essere davvero freelance. Per come la vedo io, si diventa freelance
quando non si hanno più quattro pareti di cemento entro cui lavorare, né giorni
e orari fissi a scandire la propria tabella di marcia. Pur mantenendo un certo
grado di autonomia
non ero affatto libera:
gli accordi prevedevano la mia presenza in giorni prestabiliti per un certo
numero di ore e ritagliarsi un mese di ferie (il minimo sindacabile per me)
richiedeva un’inevitabile pianificazione fatta per tempo. So che questa può
sembrare anarchia a chi siede dietro uno sportello tutta la settimana, ma non
era quello che volevo, non era quello che faceva per me.
Avevo bisogno di una maggiore destrutturazione per avvicinarmi alla mia
armonia.
E ora? Cosa è cambiato nella mia vita lavorativa da quando sono
diventata editor digitale? Beh, tanto per cominciare…
1. Non metto più la
sveglia al mattino. E sii magnanimo nel farmi passare questo dettaglio
come primo punto, perché per me questa sì che è una signora rivoluzione. Odio la sveglia, la odio con tutto il cuore, da sempre. Mi indispone, mi rende nervosa, mi
fa venire voglia di addentare qualcuno. Anche se uso la
musica, o il cinguettio degli uccelli, o la voce di Bono Vox che mi sussurra
languidamente che è ora di alzarsi. Da quando sono in Thailandia non mi sveglio
più quando trilla il cellulare, ma quando il mio corpo decide che ha dormito
abbastanza. Vi assicuro che la giornata comincia in modo decisamente diverso!
2. Non ho più orari
da rispettare. Naturalmente ho delle scadenze, visto che ho dei clienti con
cui relazionarmi. Ma se ho bisogno di prendermi una pausa per fare una
passeggiata o un massaggio non devo stare a spiegare perché e per come a nessuno. Stessa cosa
se voglio concedermi qualche giorno intrasettimanale: recupererò in un altro
momento. Finché mi so gestire e la qualità del mio lavoro non ne risente, nessuno è tenuto a saperlo.
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Il mio nuovo ufficio: una piccola libreria francese in mezzo a un giardino tropicale. |
3. Mi sono liberata di
tutta la burocrazia e dei corollari del mio lavoro. Editare era la parte
preponderante del mio lavoro anche in ufficio, ma non era l’unico. C’erano le
schede editoriali, i contatti con i partner stranieri, le mail degli aspiranti
scrittori, le scadenze incrociate da fare coincidere, i casini con gli impaginatori, le tipografie, i distributori. Non che queste cose fossero brutte in sé e per sé, ma non erano adatte a me. Oltre a
conciliarsi male con il mio carattere, poco incline all’organizzazione e alla
mediazione, succhiavano tempo alle mie giornate e sottraevano attenzione a ciò
che mi piaceva davvero: correggere libri. Diventare editor nomade ha grattato via il superfluo, mi ha liberato di quell'enorme zavorra di incomprensioni, compromessi e tensioni e mi ha restituito tempo per fare ciò
che mi piace davvero: editare. Ho scartato l’involucro e ho tenuto la
caramella.
4. Ho ottimizzato il
tempo lavorativo creando più tempo extra-lavorativo. Senza le distrazioni
dell’ufficio, le voci che si rincorrono e i telefoni che squillano, sono
più concentrata e ho aumentato il mio rendimento. Mi manca molto lo spirito cameratesco, ma indubbiamente l'ufficio è un disperditore di energie. Devo ancora lavorare molto su
questo, ma qualche progresso c’è già stato. Sta succedendo quello che ho già sperimentato
quando ho smesso di fumare: sto guadagnando tempo. Che mi è sempre parso più
interessante che guadagnare denaro. Ottimizzare il proprio tempo lavorativo
significa ricevere in dono un surplus di minuti, ore e giorni da dedicare a ciò
che piace e alle relazioni umane. Insomma, all’essenza della vita.
5. Ho ridotto lo
stress di circa l’80%. Questo punto è il corollario dei 4 precedenti. Aprire
gli occhi senza sveglia, non avere orari da rispettare, lavorare senza zavorre
che non mi piacciono e cominciare ad avere più tempo per fare ciò che voglio
hanno drasticamente ridotto il mio livello di stress. Naturalmente non sono scomparse le giornate no e nemmeno le incazzature, ma facendo una media
sorrido di più, cammino più lenta, reagisco a ciò che va storto con più senso
dell’umorismo e molta più pazienza.

Tempo di bilanci, quindi. Sono stati due mesi densi, confusi, a tratti duri, che hanno
sistematicamente fatto abbassare la cresta alle mie aspettative e messo in
discussione molti dei punti fermi su cui ruotava l'immagine che avevo di me (quanto tempo passiamo a costruire un'immagine coerente di noi stessi solo per sentirci un po' meno persi...). Sono stati, proprio per questo, due
mesi formativi e rivelatori, un'intensa palestra di vita. Che non mi ha chiarito le idee, tutt'altro: non so ancora dove mi
porterà questa nuova vita, non so nemmeno che cosa farò il prossimo mese. Ma nemmeno nei momenti più duri ho rimpianto per un solo istante
la decisione presa la scorsa estate sulla cima di quella montagna, quando tutto era così confuso da sembrare senza via di uscita, e invece bastava solo trovare il
coraggio di essere onesta con me stessa e tagliare i rami secchi. Meglio tardi che mai!
E tu? Quali sono i rami secchi che vorresti tagliare? Scrivilo nei commenti! Non per dirlo a me, ma perché il solo scriverlo aiuta a ridare alle cose la giusta dimensione. Scrivere aiuta a vedere i problemi dall'esterno e ad annullare quell'identificazione che ha il vizio di fare sembrare tutto irrisolvibile. Scrivi e poi rileggi. È davvero così complicato come sembrava? Così un vicolo cieco? O c'è qualcosa che puoi fare per cambiare la situazione?
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